Cinema

Addio a Kirk Douglas, mito centenario del grande schermo

Kirk Douglas
Kirk Douglas

Da Ulisse a Stanley Kubrick, da Van Gogh ai vichinghi, ci ha lasciato a 103 anni l'ultimo dei grandi attori della Hollywood degli anni d'oro.

E' facile essere bravi in un film di Robert Altman. Provate piuttosto ad essere bravi in Cyborg 3”.

Le parole sono di Malcolm McDowell, ma si potrebbero adattare perfettamente anche al percorso artistico di Kirk Douglas, spentosi il 5 febbraio all'ammirabile età di 103 anni. 

La carriera di Douglas, iniziata nel 1946, comprende oltre un centinaio di pellicole; prevedibile e inevitabile, quindi, che fra tanti titoli che hanno fatto realmente la storia del cinema – e che in queste ore vengono sciorinati a ripetizione in ogni “coccodrillo” pubblicato -, non siano poche quelle pellicole, a volte incomprese e a volte davvero di poco valore, girate dall'attore per motivi di “sopravvivenza”.

Così, per non citare nuovamente (ma un pochino lo faremo comunque, e meritatamente, intendiamoci) Orizzonti di Gloria o Spartacus, preferiamo affidarci alla memoria di spettatori e ricordare Kirk Douglas in un percorso non lineare, senza alcun intento smitizzante, ma intrapreso solo per il piacere del ricordo.

Orizzonti di gloria (1957)

Ancora vino per Polifemo!

E il primo ricordo cinematografico legato alla presenza di Kirk Douglas è senza dubbio Ulisse (1954) , la versione cinematografica de L'Odissea, ad opera di Mario Camerini, dove il nostro interpretava ovviamente l'eroico Ulisse. Ma la scelta dell'attore non deve trarre in inganno. 

Pur trattandosi di produzione Made in Italy, la pellicola nulla aveva del prodotto di serie B e neppure per Douglas si trattava di un ripiego: la sua carriera era infatti in netta ascesa, avendo già in curriculum pellicole dirette da Billy Wilder, Howard Hawks e Vincent Minnelli. A ben vedere, opere senza dubbio molto più incisive de L'Odissea di Camerini, ma se di sequenze “segnanti” vogliamo parlare, difficile dimenticare l'Ulisse di Kirk Douglas intento a pigiare l'uva necessaria ad ubriacare il ciclope Polifemo. I tanti, tantissimi, western arriveranno dopo...

Ulisse (1954)

Van Gogh, vichinghi, cowboys e Kubrick19

Il bello della carriera di Kirk Douglas è stato - anche - proprio questo: rivederlo in ruoli e personaggi che, a primo impatto, poco o nulla avrebbero potuto aver a che fare con la fisicità dell'attore. Tenendo ben presente ciò, si rimane comunque stupiti nel ritrovarlo, appena un anno prima di Orizzonti di Gloria di Stanley Kubrick, nei panni di Van Gogh in Brama Di Vivere (ruolo per cui, comunque, fu candidato all'Oscar), o nelle altrettanto inusuali vesti di vichingo ne I Vichinghi di Fleischer (1958) già l'anno seguente.

E' proprio questa “trasversalità” nella scelta che garantì a Douglas, oltre all'immediata riconoscibilità presso il pubblico e il conseguente successo delle pellicole, anche un ampio margine di movimento decisionale relativo alla produzione di un film. Potere che gli permise, fra le altre cose, di imporre nuovamente Kubrick per Spartacus e soprattutto gli diede, in un clima di sospetto e isteria collettiva, la possibilità di affrontare e sconfiggere il maccartismo e la “caccia alle streghe”, come in seguito raccontato da Douglas stesso nel bel libro “Io sono Spartaco!”.

Spartacus (1960)

Fly Me To The Moon

Ovviamente, trattandosi di una carriera cinematografica di oltre 60 anni, non tutte le ciambelle (anche quelle di celluloide) riescono col buco, e molte sono le pellicole dal dubbio valore girate dal nostro. Fra un suggestivo 20.000 leghe sotto i mari disneyano (1954), il pasticciato horror italiano Holocaust 2000 (1977), e il thiller paranormale Fury (1978) di Brian DePalma, senza dubbio l'Oscar del meno riuscito, e quindi del più “sublime”, tocca a Saturn 3 (1980). 

Nonostante le premesse per una fantascienza “adulta” fossero buone (Stanley Donen alla regia, su sceneggiatura di Martin Amis), il risultato non fu all'altezza (per usare un eufemismo), e vide Kirk Douglas difendere le grazie della splendida Farrah Fawcett da un robot – minaccioso quanto un bollitore, ma dalla libido ben attiva – a cui è stata impiantata la mentre distorta del villain Harvey Keitel. Da recuperare? Forse, ma solo per godersi una volta di più la capacità di risultare credibile, anche nelle situazioni più imperdonabili, di un attore realmente gigantesco.